
Articolo di Annamaria Niccoli
17 agosto 2025
Il caso di Luigi Chiatti, conosciuto come il “Mostro di Foligno”, rappresenta uno dei capitoli più drammatici e complessi della storia criminale italiana. Questa vicenda, che ha profondamente scosso l’opinione pubblica, continua a sollevare questioni cruciali su giustizia, salute mentale e protezione sociale, trasformando la storia di un individuo in un monito per l’intera comunità.
Dalle origini all’efferatezza
La vita di Luigi Chiatti, il cui nome di nascita era Antonio Rossi, iniziò sotto il segno dell’abbandono. Dopo i primi anni trascorsi in un brefotrofio, fu adottato poco prima di compiere sei anni da una famiglia benestante di Foligno. Nonostante l’apparente stabilità, questa adozione non riuscì a colmare il profondo vuoto interiore che lo avrebbe portato a compiere una serie di atti criminali. Il suo percorso di orrore iniziò il 4 ottobre 1992 con l’omicidio di Simone Allegretti, un bambino di quattro anni. Il corpo fu ritrovato due giorni dopo e, a complicare ulteriormente il quadro, un biglietto anonimo firmato “il Mostro” rivendicava l’atto e forniva dettagli precisi sul ritrovamento. Circa dieci mesi dopo, il 7 agosto 1993, il “Mostro” tornò a colpire, uccidendo il tredicenne Lorenzo Paolucci. Fu in seguito a questo secondo delitto che gli investigatori, seguendo le tracce, giunsero alla casa di vacanza dei Chiatti, dove Luigi confessò entrambi gli omicidi. La scelta di autodefinirsi “il Mostro” e l’utilizzo di questo appellativo suggeriscono una specifica e deliberata costruzione di una figura criminale, quasi a voler definire un’identità distorta e perversa.
Il paradosso della psiche criminale
Le valutazioni psicologiche di Luigi Chiatti presentano un paradosso notevole e inquietante. Nonostante un Quoziente Intellettivo elevato (114), le perizie psichiatriche hanno evidenziato una “scarsa considerazione della realtà” e una “fantasia sbrigliata”. I suoi crimini sono la tragica manifestazione di una grave psicopatologia, caratterizzata da parafilie come pedofilia, sadismo e necrofilia. L’iter giudiziario che ne è seguito ha messo in luce le complesse sfide poste dal rapporto tra giustizia e salute mentale. La riduzione della pena da due ergastoli a trent’anni di reclusione si basò proprio sulla dichiarazione di “semi-infermità mentale”, un riconoscimento che ha acceso un ampio dibattito sul delicato equilibrio tra la punizione del crimine e la gestione della malattia mentale.
Oltre la pena: la detenzione a tempo indefinito
Nel 2015, dopo aver scontato la sua pena detentiva, Luigi Chiatti non ha fatto ritorno alla libertà. La sua destinazione è stata una REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) in Sardegna. Il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari continua a prorogare la sua permanenza in questa struttura, basandosi su valutazioni psichiatriche che lo considerano ancora un individuo socialmente pericoloso, con un “concreto pericolo di reiterazione dei reati”. Questa custodia a tempo indeterminato, che ha un costo per lo Stato stimato in circa 600 euro al giorno (dati 2018), solleva una serie di questioni etiche e finanziarie. Il dibattito pubblico si interroga sulla potenziale riabilitazione di Chiatti, sulla sincerità del suo pentimento e sulla sostenibilità economica di una detenzione che potrebbe, in linea teorica, durare per tutta la sua vita.
Rimorso e scetticismo
Nel 2018, Luigi Chiatti ha inviato una lettera al quotidiano sardo L’Unione Sarda, esprimendo “umili scuse” ai genitori delle sue vittime. Nella missiva, si è descritto come un uomo in cerca di “rinascita”, consapevole della distruzione che ha causato.Tuttavia, le sue parole sono state accolte con profondo scetticismo dalle famiglie colpite dalla tragedia. Il loro avvocato Giovanni Picuti, ha respinto il gesto, sottolineando che “non si può dare credito alle parole e alle promesse palesemente interessate, di un assassino dichiarato parzialmente incapace di intendere e di volere”. Il suo scetticismo è motivato sia dalle passate dichiarazioni di Chiatti (che aveva espresso la volontà di reiterare il reato), sia dalla sua nota intelligenza, che potrebbe far considerare il gesto come una “tattica” e non un genuino pentimento.
La carcerazione la malattia mentale
Il caso di Luigi Chiatti non è solo una cronaca di un crimine orribile, ma una lente attraverso cui osservare il fallimento del nostro sistema nel gestire la malattia mentale. Le carceri non sono e non possono essere luoghi di cura. La loro natura intrinsecamente punitiva e restrittiva, l’isolamento, la mancanza di un supporto terapeutico adeguato e la costante tensione dell’ambiente carcerario agiscono come catalizzatori che aggravano, anziché mitigare, i sintomi psicotici e i disturbi della personalità. Per un individuo già fragile, la detenzione diventa un viaggio verso un abisso ancora più profondo di sofferenza, che spesso porta a un deterioramento irreversibile della salute mentale. Non si può pretendere che un’istituzione carceraria possa anche curare o reintegrare un malato psichiatrico.
La vicenda di Chiatti ci insegna che finché continueremo a rinchiudere i malati nelle carceri, falliremo non solo nella riabilitazione, ma anche nel proteggere la loro dignità umana.
Correttore bozza: Gemini
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