La Grande Moschea Omari

Articolo di Annamaria Niccoli
13 ottobre 2025

A due anni esatti dall’inizio del conflitto innescato il 7 ottobre 2023, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania non affrontano solo una catastrofe umanitaria di proporzioni inaudite, ma anche un’implosione culturale che minaccia di cancellare secoli di storia. La sistematica distruzione del patrimonio artistico e archeologico palestinese ha raggiunto una soglia critica, sollevando l’allarme di istituzioni internazionali e studiosi, che denunciano un vero e proprio “genocidio culturale in atto”.

“Un genocidio culturale in atto”. I dati aggiornati dall’UNESCO al 6 ottobre 2025 dipingono un quadro desolante: 114 siti culturali sono stati danneggiati o distrutti nella Striscia di Gaza, inclusi 13 luoghi di culto e 81 edifici storici o artistici. Ancora più drammatica è la stima del Ministero palestinese del Turismo e delle Antichità, che parla di 207 siti su 320, ovvero oltre il 65% del patrimonio archeologico nazionale, completamente distrutti o gravemente compromessi.
Sebbene l’UNESCO non abbia potuto convalidare integralmente questa cifra a causa dell’impossibilità di accesso e verifica in loco, il Direttore Generale, Audrey Azoulay, non ha esitato a definire la situazione “un genocidio culturale in atto”, sottolineando che la “distruzione sistematica del tessuto storico di Gaza non è un danno collaterale, ma una strategia per cancellare l’identità palestinese”. Questa dichiarazione trova riscontro in appelli e analisi precedenti, come l’iscrizione del Monastero di Sant’Ilarione/Tell Umm Amer nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO (agosto 2024) nel tentativo di fronteggiare l’impatto del conflitto.
Gaza, un crocevia di civiltà che ha visto la sovrapposizione di culture egiziane, filistee, romane, bizantine e ottomane fin dal periodo neolitico, vede oggi la sua storia millenaria ridotta a polvere. Tra i simboli perduti spiccano:
– La Chiesa bizantina di Jabaliya: Struttura del V secolo rasa al suolo, i cui mosaici sono stati oggetto di un vano tentativo di salvataggio.
– Il Palazzo di Qasr el-Basha: Centro storico ottomano, restaurato dall’UNESCO nel 2019, colpito dai bombardamenti e poi occupato dalle forze militari, precludendo ogni intervento di salvaguardia.
– Blakhiya-Anthédon: Sito costiero di importanza ellenistica e romana, irrimediabilmente compromesso per il 70% delle sue strutture.
– La Grande Moschea Omari: Il più antico luogo di culto islamico della Palestina, costruito nel 1300, di cui oggi restano solo le fondamenta a seguito di plurime esplosioni.
Il rischio non si limita alla Striscia.
– In Cisgiordania, il “paesaggio culturale delle olive e delle viti di Battir”, patrimonio UNESCO dal 2014, è stato inserito nella lista del Patrimonio Mondiale in pericolo. L’espansione delle colonie e la costruzione di infrastrutture hanno cancellato, secondo mappature satellitari del 2025, il 40% delle tradizionali terrazze agricole.
– Basilica della Natività a Betlemme, luogo di culto fondamentale per la cristianità, risulta a rischio strutturale a causa delle vibrazioni generate dai movimenti militari nelle vicinanze.
L’UNESCO, in una dichiarazione di ottobre 2025, ha accusato le autorità israeliane di “ignorare ripetutamente le richieste di preservare i siti storici”, citando l’abbattimento della “Torre del Faro di Gaza” (XII secolo), riconosciuta come patrimonio mondiale provvisorio.

Questa condotta, secondo gli esperti di diritto internazionale, configura una violazione palese della “Convenzione dell’Aja del 1954” per la protezione dei beni culturali in tempo di guerra, che impone alle parti in conflitto di astenersi da ogni atto ostile diretto contro tali beni.

A fronte di questa devastazione, la “Commissione del Patrimonio Mondiale”, riunitasi a luglio 2025, ha approvato una risoluzione che definisce l’intervento per il salvataggio del patrimonio palestinese come un “dovere morale della comunità internazionale”. Tuttavia, l’impegno economico finora è insufficiente: i fondi raccolti coprono appena il 15% dei 31,2 milioni di euro stimati come necessari per gli interventi di emergenza. La ricostruzione completa, calcolata in 261 milioni di euro su un arco di otto anni, richiederebbe una mobilitazione politica e finanziaria senza precedenti.
Nonostante le condizioni proibitive, la Palestina ha risposto con un atto di simbolico: il Decreto Legge 15/2025, adottato nel settembre 2025, istituisce un “Fondo per la Resilienza Culturale” e prevede pene severe per i danni ai beni storici. Sebbene inefficace per la mancanza di accesso alle aree colpite, come sottolineato da Leila Khoury, direttrice dell’Istituto di Archeologia di Betlemme, rappresenta un fermo punto di principio.

Parallelamente, gruppi di volontari palestinesi e archeologi internazionali stanno combattendo la battaglia della memoria digitale. Attraverso modelli 3D e fotogrammetria satellitare, coordinati da esperti come Yusef al-Tamimi dell’Università di Birzeit, si sta cercando di “preservare la memoria digitale” dei siti distrutti. Questo progetto, finanziato privatamente, ha già salvato i dati di 32 luoghi, tra cui la Chiesa di Jabaliya.
La posta in gioco, come ammonisce la Prof. Elena Rossi dell’Università di Bologna, non riguarda solo i palestinesi: “Gaza è un archivio vivente della storia mediterranea. La distruzione di Blakhiya-Anthédon cancella la prova dell’interazione tra commercianti fenici ed ellenistici, mentre la perdita della Moschea Omari cancella secoli di architettura islamica medievale”. La distruzione del patrimonio palestinese è, in definitiva, una perdita irreparabile per la memoria collettiva umana. Senza una cessazione immediata delle ostilità, ogni sforzo di tutela e documentazione rischia di rimanere un epitaffio per una storia cancellata.

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